lunedì 9 aprile 2012

[revisioni] Una vita al massimo


True Romance ("Una vita al massimo" secondo il parere discutibile del titolista italiano) è un cult movie. Di quelli con le scene madri che stanno in piedi da sole, di quelli che propongono una visione della vita (in questo caso dell'amore) capaci di rilanciare un immaginario. Di quelli che puoi prendere un personaggio a caso, farci un poster ed essere sicuro di aver incorniciato un'icona. Di quelli pieni di attori famosi anche in ruoli minori (qui LUI e LUI, per esempio) e di attori che sarebbero diventati famosi in un paio d'anni (LUI, e perché no anche LUI). Di quelli del primo Tarantino, per intenderci, quello veramente tosto e detonante. Quello che ancora oggi gli sceneggiatori post-post-post moderni (chiamateli come volete) cercano vanamente di imitare domandandosi come diavolo abbia fatto quel ragazzino a calare delle linee di dialogo piene di stronzate scritte così bene, talmente buone da rischiare di trascendere il plot e portare a casa il film da sole. Voi lo andreste a vedere un Tarantino del primo periodo se vi dicessero che i personaggi non si alzano mai dal tavolo di uno Starbuck's e continuano per tutto il tempo a disquisire sull'importanza delle salse nei Roadhouse Grill? Io subito. Sbaverei (e non per le salse). Quindi il dialogo, in Tarantino, batte lo scheletro narrativo dieci a zero e fuori casa. Fuori Casa, dico, perché di solito un film iper-saturo di dialoghi è verboso e sfiancante, e in ogni caso il dialogo è di per sé un accessorio sempre pericoloso da usare in un'arte, il cinema, che è visione per antonomasia. Quello di Tarantino sarebbe potuto essere addirittura un cinema dell'assurdo, se avesse messo in atto le conseguenza del suo essere. Pensateci, è talmente brillante il modo in cui il buon Quentin ci porta verso la catarsi della violenza, talmente perfetto e dilatato, che quando poi la violenza accade rimaniamo quasi delusi. Ne volevamo ancora, di attesa. Ma sto uscendo di strada, perché il film che sto recensendo NON è diretto (ma "solo" scritto) da Tarantino. 
  Dunque, ricapitoliamo: sei un regista, hai in mano un ottimo soggetto padre di una sceneggiatura fuori dalla grazia del signore, hai i soldi e il tuo agente di casting ti porta agli studios una schiera di attori tanto bravi e numerosi da mettere in imbarazzo Robert Altman. Però hai un problema: ti chiami Tony Scott, ti piacciono un sacco i colori iper-saturi, la semplicità narrativa e non hai smaltito ancora del tutto la cocaina che ti sei pippato negli anni '80. In più, il tuo problema si declina in un'aggravante: sei ASSOLUTAMENTE sicuro di te.


  Per carità, magari fai pure bene, stai per girare un film con le premesse di cui sopra, un progetto così lo porterebbe a casa pure il Woody Allen di Hollywood Ending, insomma, difficile far danni. Però, ti ripeto, ti chiami Tony Scott, hai diretto TOP GUN e ti strappi un pelo del culo ogni volta che ti viene in mente che tuo fratello ha fatto BLADE RUNNER. Pertanto, riesci nell'impresa, riesci a fare danni, finendo per ottenere un sei stiracchiato da quello che poteva essere un capolavoro. Si, Tony, applichi una messinscena sciatta e sconclusionata a un film che avrebbe voluto una scenografia e un montaggio plastici e asserviti ai personaggi. Un esempio, Dennis Hopper abita vicino a dei binari del treno in funzione, dove "in funzione" significa che i treni continuano a passare. Alla fine del film quanti si ricordano questa cosa? Ok, tutti, ma se ne ricordano come di un mero dato di fatto, non si accende quella scintilla iconica che un regista dotato avrebbe saputo far accendere anche su un particolare come questo, molto di secondo piano. Scott inquadra tante cose ma non ne descrive nessuna. Altra cosa, il film in sede di sceneggiatura era stato scritto NON in ordine cronologico, un po' come PULP FICTION, presumo: ecco, perché raccontarlo nell'ordine "giusto"? L'estrema semplicità del plot NECESSITAVA, a mio avviso, di una complessità temporale, era stata progettata per questo. Bah, forse Tony temeva di spaventare i Topgunners. Altra questione, lo Scott piccolo coreografa bene. Dissento. Se nella scena finale, con tutte le fazioni schierate nella camera del produttore, a un qualsiasi personaggio fosse venuta in mente una battuta demenziale, ecco che ci saremmo ritrovati in un film di Mel Brooks. Certo, c'è del buono, anche il nostro Tony a più riprese si dimostra brillante, però... però non mi puoi sbagliare un film che contiene questa scena:


Non mi puoi sbagliare un film in cui c'è lei, che dice pure che lo aspetta in camera a vedere i film sporchi:

Ma soprattutto non puoi commettere leggerezze mentre sotto il naso ti esce quest'altro film:


Che è pure lui un film sul Vero Amore e pure lui è un cult movie, ma possiede una terza caratteristica: è un buon film. Non un sei stiracchiato.

giovedì 15 marzo 2012

[recensione] Posti in piedi in paradiso



Cinema.

Buio in sala. Trailer prima del film.

Chi c'è?”

Ci sono Verdone, Favino, Giallini, la Romanoff e la bonazza, quella bionda. La moglie di Virzì, hai presente?”

Chi, la Ramazzotti?”

Sì, lei”


lei

Bene. Cos'è, Manuale d'amore 7?”

No”

Maschi contro femmine 5?”

No”

Notte prima di qualcosa?”

No. E' l'ultimo di Verdone: Posti in piedi in paradiso”

Ah, ecco. E' che 'sti film si somigliano un po' tutti”

Già...”

No, perché c'è Verdone che c'è stato in Manuale d'amore...”

Sì”

Giallini che ora c'è sempre. Favino che c'è sempre stato e continua ad esserci sempre. Poi la moglie di Virzì e quella che faceva i film con Muccino prima che Muccino se la tirasse. Ah! C'è anche Muccino piccolo?”

No, lui no”

Bene”

Primo tempo.

Puttana, che amarezza esistenziale”

Già...”

Cazzo! Verdone fa il giovane coi Doors”

Giovane?”

Fine primo tempo.

Cavolo quanto è serio 'sto Verdone! Non risparmia niente ai quei poveri cristi. La crisi economica, i fallimenti familiari, i figli ingrati...”

Almeno chiavano. E quell'attrice giovane ha fatto vedere anche le tette”

Secondo tempo inoltrato.

Ma quando finisce? Non ne posso più. Qua non tromba più nessuno. Poi, prima erano cazzi amari tutto il giorno e invece ora tutti si voglion bene. Sembra uno spot di Buttiglione”

...”

Cazzo fai, dormi?”

...”

Titoli di coda

Quant'è che ha incassato finora 'sta merda di film?”

6 milioni. Lo pompano da dicembre”

Ma è marzo...”

Appunto”

Senti... Andiamo a casa che danno Risi in tv?”

Ok”





D.M.
(Voto: * ½ )

venerdì 2 marzo 2012

[(mini)recensioni] Hysteria + Knockout

Donne con le palle


Hysteria 




Ti aspetti un'arguta e deliziosa commedia all'inglese e invece ti propinano una farsaccia cui il modello di riferimento è la comicità pruriginosa e volgare di “Tutti pazzi per Mary”. Data la provenienza americana di regista, sceneggiatori e metà cast, c'era forse da aspettarselo. L'invenzione del vibratore è usata come giustificazione di partenza per parlare del ruolo sociale delle donne in epoca Vittoriana , con un occhio ai giorni nostri. La Gyllenhall fa la suffragetta e la Jones fa la sorella conformista. Il medico liberal interpretato da Hugh Dency deve scegliere tra le due. Sapendo già come va a finire dopo dieci minuti, la noia regna sovrana. I restanti ottanta minuti sono infatti uno strazio di scenette comiche infantili e di dialoghi stantii. Infine, imbarazzante nonché ipocrita il finale, dove la Suffragetta, che giustamente rivendica indipendenza e potere sociale riesce ad avere la meglio sulla vita carogna SOLO grazie all'aiuto di un uomo. La sala (gremita di giovani), comunque, apprezza: mai sentite in vita mia così tante risate durante la proiezione di un film. Mi rimane quindi un dubbio: sono io di gusti difficili o sono loro di bocca buona? A voi la risposta.

Voto: * ½ (sarebbe *. Il mezzo in più è tutto del redivivo Rupert Everett, che svetta sugli altri attori e regge di peso l'intero film, anche grazie all'unico personaggio scritto in maniera decente dagli sceneggiatori)


Knockout – Resa dei conti



Steven Soderbergh ce l'ha fatta di nuovo: raccontando una storiella dal soggetto esile esile e dallo svolgimento risaputo è riuscito a realizzare un film dove la componente tecnica è talmente superba che non si può che rimanere ammaliati. Il buon Steven – insieme all'altro grande autore "mainstream” di Hollywood, David Fincher – sta infatti definendo la grammatica del cinema hollywoodiano a venire, creando la forma classica del domani. In pratica sta facendo, per gli anni '10 (fa specie scrivere '10), quello che Tarantino ha fatto per i '90 (partendo da indipendente, in realtà), Spielberg per gli '80, Coppola per i '70 e così via. Per quel che riguarda Knockout nello specifico, la storia è veramente semplice: una mercenaria a contratto cerca vendetta dopo essere stata tradita dal datore di lavoro. Al di là della messa in scena, è notevole la costruzione narrativa a flashback e l'interpretazione della Carano, vera lottatrice professionista prestata al cinema. La sua performance (anche fisica) non sfigura davanti ai vari Fassbender, Douglas, Banderas, McGregor... Mi preme infine sottolineare come Knockout sia un vero film “femminista” (quello che Hysteria si spaccia di essere, ma non è), dove l'unica donna presente nel film (è davvero l'unica, fateci caso) ha la meglio su una schiera di uomini solo grazie alle sue capacità. Che dire? Bravo Soderbergh!

Voto: ***

D.M.

mercoledì 29 febbraio 2012

[recensione] In Time


Moda 2012: socialismo in salsa Hollywood

In Time, ultimo film di Andrew Niccol, è il tipico film “alla” Andrew Niccol. Cosa intendiamo per film “alla Niccol” è presto detto: una pellicola che parte da uno spunto interessante (in questo caso, un futuro imprecisato dove la moneta corrente sarà il tempo e non più il denaro) per poi arenarsi in uno svolgimento banale e alquanto scontato. Quasi che il regista neozelandese voglia involontariamente seguire una sua perversa politica autoriale.



Pensiamo ai suoi film precedenti. Gattaca (1997), S1m0ne (2002) e Lord of War (2005) sono tutti segnati da un rilevante scarto qualitativo tra il soggetto e la sua messa in scena, con menzione speciale per l'ultimo di essi, ritenuto qua a bottega uno dei più brutti film usciti in sala nel decennio trascorso. Mi preme sottolineare che non si tratta di un problema di regia (comunque in linea con la media hollywoodiana), ma di sceneggiatura, intesa come caratterizzazione dei personaggi e – soprattutto – come sviluppo di un climax narrativo. In questo modo, i due principali assi narrativi “niccoliani” vanno a farsi benedire: da un lato la fantascienza (intesa come hollywoodiana/spettacolare) muore soffocata dalla noia, dall'altro l'umanesimo non trova personaggi così profondi da poterlo supportare. Il risultato, quindi, non può che essere un film sterile. Sterile, si badi bene, non brutto, come "non brutti" sono anche tutti gli altri lavori di Niccol (con la già citata eccezione di Lord of War).



La sterilità di In Time è evidente. Riproponendo in chiave futuristica il mito tutto americano del bandito “buono”, rinuncia a conferire al proprio protagonista qualsiasi valenza metaforica e, venendo meno questa chiave di lettura, quello che rimane è il mero stereotipo. Non riuscendo a creare una profondità in tal senso, il film manca clamorosamente il bersaglio della denuncia sociale (quale tenderebbe in partenza) e diventa un semplice action con storia d'amore. Guardando ad altri film celebri che trattano lo stereotipo del bandito,  meglio si comprende l'immane portata del fallimento. Sto parlando di pellicole come, ad esempio, Gangster Story (Arthur Penn, 1967) che, raccontando le gesta di Bonnie e Clyde, evidenziava le fratture sociali scaturite dal Vietnam oppure di Nemico Pubblico (Michael Mann, 2009), acutissimo saggio sull'immagine e la sua rappresentazione mediale, declinato attraverso la figura di John Dillinger. E' dunque inutile riproporre il tema “Bonnie and Clyde” (rivisitato in chiave socialista 2012 del “occupy Wall Street”) se esso manca di profondità analitica e non va al di là di un semplice giovani-belli-anticonformisti-che-rubano-ai-ricchi-per-dare-ai-poveri. Si capisce bene come il populismo e la demagogia siano di lì a un passo.

Tutto questo pistolotto per dire, in definitiva, che In Time non è un brutto film, ma un prodotto di media qualità che ha cercato senza riuscirvi di fare il passo più lungo della gamba, rimanendo incagliato in quella straniante zona che sta tra l'autorialità e il pop-corn: e così, allo spettatore non rimane che l'amaro in bocca per quello che il film avrebbe potuto essere ma non è stato.

Voto: **


D.M

Ndg [Nota di Gratta]: Stento ancora a comprendere tutta questa "politica dell'autore" che si è creata intorno a Andrew Niccol. Non vedo un motivo per cui il suddetto regista debba essere analizzato come un maestro e non come un qualsiasi altro mestierante. Mistero. Altra cosa che non capisco. Justin Timberlake. La sua faccia. Gli schiaffi. La sua faccia e gli schiaffi.

lunedì 27 febbraio 2012

[speculazioni] oscar 2012 (parte seconda)


Finalmente! Finalmente l'Academy ha indovinato l'assegnazione degli oscar! Non ho visionato in diretta la cerimonia, però il mio cane mi ha assicurato che Billy Crystal è stato oltremodo brillante... Rullo di tamburi... il tempo dell'asservimento ai verdetti del botteghino e della premiazione dei film più piacioni e imbecilli è finito. E non posso che rallegrarmene!
Dunque passiamo in rassegna e commentiamo la consegna delle principali statuette!

MIGLIOR FILM E MIGLIOR REGIA
TAKE SHELTER

Qui i giovanotti dell'Academy hanno fatto una scelta davvero condivisibile, quasi commovente nel suo essere fuori dalle previsioni. Hanno premiato un film lontano dalle logiche di consumo a stelle e strisce, una pellicola quasi indipendente. Un capolavoro, che riesce a essere universale pur mantenendo una poetica di fondo fortemente americana, centrando l'obbiettivo di apparire consolatorio e straziante nello stesso momento, creando un cocktail emozionale indimenticabile. L'immagine del giovanissimo Jeff Nichols che piange impugnando l'oscar rimarrà uno dei vertici della serata losangelina.

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA
GARY OLDMAN - LA TALPA

Devo dire che era nell'aria. Forse io avrei premiato lo Shannon di Take Shelter, ma direi che il trionfo di Gary Oldman non può che mettere tutti d'accordo. Il suo George Smiley è mimetico e immenso, riesce a essere espressivo senza muovere un muscolo, la sua emozione arriva tutta dagli occhi, ora grandi, ora piccoli, ora perplessi, ora determinati. Un attore perfetto in un film perfetto. E una perfetta scelta da parte dell'Academy. Il discorso di Oldman al ricevimento della statuetta è stato assai spassoso (soprattutto la parte sull'irreperibilità di un buon sorbetto al limone all'interno della base di Guantanamo).

MIGLIOR ATTRICE
ROONEY MARA


E questo è sacrosanto. Quando hanno chiamato il suo nome il mio cane si è messo ad abbaiare furiosamente. Poi si è fatto la pipì addosso. Per cercare di distogliermi dalla gravità del suo misfatto, l'animale si è messo poi a farneticare su quanto la Mara dal vivo non sia nemmeno una brutta femmina. Io l'ho bastonato comunque, con l'aggravante che un cane che guarda le femmine umane mi odora di morboso. 
Ma torniamo seri. La Lisbeth Salander del film di Fincher è veramente qualcosa di strepitoso (che fa le scarpe alla comunque brava Noomi Rapace). E poi mi piace quest'attitudine dell'Academy di lasciare all'asciutto la vecchia guardia e premiare i giovani meritevoli. Per un attimo mi era balenata l'idea che potessero consegnare la statuetta a Meryl Streep, ma poi ho pensato alla sua cofana nel film della Tatcher e mi sono detto: "Impossibile...".
E infatti, fortunatamente, avevo ragione.

MIGLIOR FILM STRANIERO
FAUST

Qui mi si è lussata la sospensione d'incredulità. Oscar a Faust? Ebbene sì, e a ricevere la statuetta c'era pure l'attore che fa il Diavolo, accompagnato da una squadra di demonietti di bolge minori. Sokurov ha cantato la canzone "Samarcanda" vestito da idraulico. Un altro premio azzeccato. Il miglior film dell'anno. Ma solo dell'anno?

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
WOODY ALLE - MIDNIGHT IN PARIS

Un oscar a Woody Allen. E se devo proprio dire, malgrado sia molto felice per uno dei miei autori preferiti, questa è l'unica statuetta che desta in me qualche perplessità. Con tutte le cose spettacolari che ha scritto il piccolo newyorkese negli ultimi cinque lustri, proprio per questo (pur gradevole) film me lo andate a premiare? E solo perché ha incassato? 

In ogni caso, a parte quest'ultima assegnazione - condivisibile ma non del tutto meritata, gli oscar 2012 sono stati davvero, e finalmente, una festa del cinema!

A domani per il commento sulla vittoria per la MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE da parte del CARNAGE di Roman Polanski!

[speculazioni] Oscar 2012


La prima cosa che mi è saltata all'occhio leggendo i resoconti della "Notte degli Oscar" sul web è che quasi tutte le statuette più importanti se le sono portate a casa gli unici due film che, in un solo mese di esistenza, abbiamo stroncato qui sul blog. Non sarà che siamo degli snob-radical-chic-Dams-stocazzo, che appena vediamo un film che profuma di successo ce ne andiamo sdegnati dalla sala portandoci dietro il nostro orgoglio d'essai?
No, non sarà. Fammi un'altra domanda, cervello...
Non sarà che Hollywood versa in uno stato di miseria creativa e produttiva senza precedenti che la costringe ad assegnare premi a cazzo di cane?
Certo, ma non solo...


Non sarà che, alla canna del gas, i membri dell'academy stiano cercando di rilanciare i film muti, ammettendo così di essere ufficialmente cadaveri (è come se la Apple, in carenza di idee, mettesse in commercio un telefono con filo e cornetta)?
Temo di si...
Possiamo aspettarci altre operazioni simili, alla luce dei risultati di questa notte?
Non possiamo, dobbiamo! Hollywood si inginocchierà e piangendo andrà a pregare i propri santi. Il gioco funzionerà per un paio d'anni (con i remake di Via col Vento e il reboot di "Nascita di una nazione" - però con i supereroi) poi tutto si sgonfierà. E allora saranno cazzi.

E adesso passiamo brevemente in rassegna le statuette assegnate.

MIGLIOR FILM E MIGLIOR REGIA
THE ARTIST (MICHEL HAZANAVICIUS)


Un film muto. Bei costumi, bravi attori, comparsate di lusso e fotografia magistrale. Risultato? Negli anni '30 neanche sarebbe entrato in nomination. Sfida il passato sul suo stesso campo, fallendo però su (quasi) tutta la linea. La vittoria delle statuette più prestigiose da parte di un film del genere è un pessimo segnale (ma questo lo avevo già detto). Nel senso, la pellicola è soltanto un divertissment. ah ah, divertente, è stato bello e tutti a casa a passo di tip tap. E finta lì! Se questi sono i picchi di intrattenimento-autorialità, di "visione di cinema" americana, allora siamo fregati.
Non che in nomination ci fossero opere gigantesche. Leggete i film in lizza, sono sicuro che dopo ve ne verranno in mente almeno una ventina di migliori usciti nel 2011 (europei ma anche americani).

MIGLIOR ATTRICE
MERYL STREEP


La prima cosa che ti viene da pensare è che il film questi nemmeno l'abbiano visto! La Streep, solitamente magistrale e ultimamente adorabile in film come Radio America, qui è probabilmente alla sua peggior prova! Poi appena mi è venuto in mente che la nomination ce l'aveva pure lei:


Mi sono tramutato nel peggior Pino Scotto e ho cominciato a mandare a quel paese lo schermo del computer (con grande sorpresa del mio cane, che pur non brillando per acutezza questa volta mi ha guardato stranito).
Se vanno avanti a dare oscar con questa bieca ottusità riverente, direi che tra qualche anno la cerimonia potrà tranquillamente essere celebrata al cimitero di Los Angeles (con Oscar a Clark Gable).
Datevi fuoco!

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
"MIDNIGHT IN PARIS" - WOODY ALLEN


Certo, vedere un premio assegnato ad Allen è sempre un piacere e in più devo ammettere che il suo film parigino l'ho trovato più che gradevole, tuttavia dare un oscar a Woody dopo venticinque anni per "Midnight in Paris" sa di presa per il culo. Il nostro amico occhialuto, in questi cinque lustri, ha scritto sceneggiature fuori dalla grazia del signore, e voi manco lo avete cagato! Ma perché, mi chiedo?
Perché "Midnight in Paris" ha incassato 150 milioni di dollari...
Giusto. Stupido io a non pensarci. Andate al diavolo...

In questi giorni proseguirò l'analisi dei premi.
Un saluto ai lettori!

mercoledì 22 febbraio 2012

[recensione] Ink


Questo è davvero di nicchia, ragazzi.
Si dice che l'esordiente Jamin  Winans (classe '77) lo abbia realizzato con venticinquemila dollari, che sarebbero pochissimi in ogni caso, ma diventano una miseria se si considera che il film è un fantasy puro
Già il fatto che in qualche modo la pellicola sia stata portata a termine, pagando effetti speciali, strumentazioni, distribuzione e attori (che sono tantissimi) è un mezzo miracolo. Mi correggo, è un miracolo intero, perché  ad aggiungersi a tutte le inverosimiglianze produttive che ho elencato c'è il fatto che Ink è un discreto film,  a tratti davvero suggestivo e commovente.
Certo, la scarsità di budget si vede e si fa sentire (anche se non quanto si possa immaginare): a tradire la povertà dei mezzi abbiamo, in ordine sparso, una fotografia digitale che spara inspiegabili luci dai contorni delle cose, delle scene action che sembrano il pre-rendering di un livello di Prince of persia, un attore protagonista che ha la faccia da comparsa di film porno, dei make-up sostanzialmente orrendi e delle scenografie povere per forza  che si atteggiano senza riuscirci a povere per scelta. Inoltre, se proprio vogliamo essere pignoli e un poco stronzi, anche molti aspetti che esentano dalle questioni di budget presentano delle carenze: ad esempio, la caratterizzazione di alcuni personaggi è forzata e pretestuosa, talvolta irritante (come nel caso di lui)


e non si trova mai un motivo che sia uno per tifare per i buoni invece che per i cattivi (che saranno anche brutti, sporchi e fastidiosi, ma almeno non sembrano degli hipster vestiti da Fantaghirò). Tuttavia l'insieme regge, perché il film ha una storia da raccontare (se riflettete sul plot a visione ultimata capirete che è meno banale di quanto non sembri immediatamente dopo il twist finale), ha un cuore e una certa forza visiva che fa ben sperare per il futuro di Winans. 
Una specie di Matrix shakerato con Labyrinth e Terry Gilliam e riplasmato in un'idea che odora di nuovo. Direi che con venticinque testoni si può fare di peggio, no?

** 1/2

martedì 21 febbraio 2012

[recensione] The Iron Lady


La tragedia di un film ridicolo

Diciamolo subito: The Iron Lady è un film tremendo. Tremendo su diversi versanti, i più importanti e subordinanti, i più facilmente elencabili: regia, sceneggiatura, soggetto e attori. Pensate che questo sintetico elenco non sia esaustivo? Provate allora a chiedere... Come dite, scenografia e montaggio? Entrambi da vomito. Potreste continuare a domandare per ore, ma vi avverto: FINIRESTE AI SUCCHI GASTRICI.



Menzione speciale per la voce “attori”: è inspiegabile come abbia fatto, ad esempio, la sempre ottima Meryl Streep (stavolta “cofanata”) a sfornare un'interpretazione così sfacciatamente di maniera e stucchevole (fra l'altro inspiegabilmente candidata all'Oscar).

Ndg [Nota di Gratta]: me li immagino quelli degli oscar... "Meryl Streep ha fatto un film quest'anno?" "Pare di si, una biografia..." "L'hai visto?" "No" "Nomination...?" "Massì..."

Gli altri interpreti, poi, sembrano assecondare la linea recitativa dettata della diva, cercando di calcare in senso spettacolare anche il gesto più banale (e fa specie pensare al grande Jim Broadbent in quest'ottica). Questo per dire degli attori. Veniamo alla regia.

Phyllida Lloyd (la regista anche di Mamma Mia, per intenderci) sembra non avere la minima idea di come muovere la macchina da presa in senso cinematografico. La sua sembra più una pessima regia televisiva, intesa come messa in scena basata su semplici effetti di spettacolarizzazione del gesto inutile. Ogni movimento è fine a se stesso, privo di qualsiasi connessione/significazione con l'evento narrato. Lo spettatore, vittima delle vertigini, può solo constatare che la sobrietà non è di casa. Il peggio, però, lo offrono soggetto e sceneggiatura. Il primo, volendo stare in equilibrio tra vita privata e vita pubblica della Tatcher, non riesce ad approfondire nessuno dei due aspetti. La seconda riesce a ridicolizzare il tutto, con dialoghi alquanto banali e situazioni involontariamente comiche (una per tutte, la reazione del marito all'attentato a Brighton: in una delle sequenze che gli autori vorrebbero più drammatiche, per lo spettatore è difficile non ridere).

In conclusione, ci tengo a ribadire una cosa: The Iron Lady è un film tremendo. Mamma mia se lo è!

Voto: *
                                                                                                                                                       D.M.

Ndg [nota di Gratta, più invasivo e inutile del solito]: Ma quanto è bello il concept del poster? Il fatto che ritragga la Tatcher ne devasta la forza, ma se lo avessero usato per Wall Street (il primo) con Gekko e lo skyline di Manhattan oppure, sempre con il succitato sfondo, per il Christian Bale di American Psycho, lo giuro, lo avrei appeso in camera. 

[Home Movies - (Re)visioni Casalinghe] Atto di Forza (Paul Verhoeven, 1990)


Seminale, nonostante tutto

E' il 1990. Si chiude un decennio, gli anni '80, dominato dal culto del corpo. Il cinema non ha fatto che alimentare (con sommo gaudio) questo culto. Da Rambo a Robocop, passando per 9 settimane e 1/2, Nightmare e Dirty Dancing. In ogni suo genere, il cinema americano eighties esalta il corpo umano. Atto di Forza/Total Recall (regia di Paul Verhoeven) arriva a chiudere i conti con questa tematica che ha ossessionato (e continua ad ossessionare) un'intera cultura. Aprendo la strada, peraltro, ad un'altra ossessione quale la realtà virtuale. Ma andiamo con ordine.



Atto di Forza si pone come parola definitiva sul ruolo del corpo e della fisicità all'interno della società. Tra corpo ed intelletto qual'è ad avere la meglio? Senza dubbio il primo. E la cosa risalta ancora di più se si pensa che il film è tutto incentrato sulla sostituzione delle identità e sullo scambio di persona. Ovvero corpi identici, ma psiche del tutto diversa. La pellicola è dunque un manifesto alla fisicità, intesa come celebrazione dell'atto fisico. Atto fisico ovviamente preponderante rispetto all'atto mentale/intellettuale. Una sequenza per tutte: Schwarzy che si libera dal giogo mentale distruggendo pezzo per pezzo (e con gran sfoggio di muscoli) la macchina che lo tiene prigioniero. Estremizzando il concetto, si potrebbe sostenere che il film rappresenti anche la vittoria del fisico anche sulla macchina: il corpo indistruttibile di Schwarzy che demolisce macchine all'apparenza indistruttibili (nota: Schwarzenegger, in quanto Corpo per eccellenza, è ovviamente perfetto per questo ruolo). Macchine, del resto, frutto dell'intelletto umano. 






Questo per dire della corporeità del cinema Usa negli anni '80. Atto di Forza, però, si pone anche come vera e propria pietra angolare del cinema di fantascienza. Basti pensare a quanti film hanno preso a piene mani dalla trama del film di Verhoeven. Johnny MnemonicMatrix e Strange Days in primis, fino ad arrivare – soprattutto – a quel capolavoro che è Inception, vero e proprio aggiornamento/approfondimento di Atto di Forza. A partire dalla struttura narrativa a scatole cinesi tipica del film sul sogno nel sogno, ovvero il sogno nel sogno nel film (che è – di per sé – un sogno), fino ad arrivare alla piattezza psicologica dei personaggi (sono personaggi di un sogno, non hanno spessore). Di Atto di Forza colpisce poi la trasandatezza della scenografia e la sua smaccata artificiosità. Come a dire: è tutto finto; è tutto un sogno. Artificiosità quindi voluta e non subita, dato anche che Atto di Forza – tipico film da incasso – ha goduto di un budget sostanzioso e di tutti i privilegi del caso (dal cast di stelle a un regista come Verhoeven, che dir di punta è dir poco per il 1990).




Atto di Forza rimane dunque in mezzo a due istanze narrative: da una parte l'esaltazione del corpo umano tipica dell'edonismo reaganiano anni '80, dall'altra una seria ed articolata riflessione sullo statuto di verità/finzione che sta alla base del concetto di realtà virtuale. Concetto che infatti verrà ripreso più volte dalla cinematografia di fantascienza durante gli anni '90, fino a diventare vera e propria ossessione negli anni Duemila. Questo suo essere precursore, fa quindi di Atto di Forza un film basilare per la cinematografia odierna.


Voto: ***

D.M.

lunedì 20 febbraio 2012

[recensioni] Take shelter


Vogliamo riaprire il discorso sulla sciagurata distribuzione italiana, che da qualche anno a questa parte un film straniero se non c'è George Clooney ce lo fa vedere COL CAZZO?
Lasciamo perdere. Che tanto per il momento non ci si può fare niente: e così, mentre i multiplex sono infestati da quel supponente ammasso di stronzate precotte che è "Paradiso amaro", ecco che il film BELLO sul senso di famiglia, quello GROSSO, quello DA VEDERE, se ne rimane oltre l'atlantico a raccogliere (meritatissime) lodi. Ve lo dico spassionatamente, scaricatelo (l'originale più i sottotitoli), perché è un capolavoro.
E' il film che avrebbero scritto insieme Malick, Cronenberg e M. Night Shyamalan (ve l'immaginate una compagine più buffa?) se in un ipotetico mondo parallelo si fossero trovati a prendere un aperitivo. Qui abbiamo la messa in scena estatica del primo, la tensione psicologica (psichiatrica) del secondo e il senso di suspance artigianale del terzo (metto in chiaro che a mio parere Shyamalan a girare un film così bello non ci è neanche mai andato vicino). E ad impastare questo turbine di eccellenze abbiamo il calore, il calore umano di cui la pellicola è ricolma e il cui specchio iconico sono gli occhi di lei:


Parla del voler bene, questo film, e poche pellicole lo hanno fatto in modo così brillante negli ultimi anni e pochi personaggi lo hanno mostrato così bene come quello splendidamente interpretato da Jessica Chastain, moglie dolce ma combattiva, pronta ad andare contro a tutto e a tutti per riprendersi indietro la vita che gli si sta squagliando tra le mani. Sulla trama   non vi dico niente, anticipandovi tuttavia che il film è un THRILLER psicologico (che l'ultimo paragrafo potrebbe indurvi a pensare di trovarvi di fronte a un drammone in salsa yankee): e che la regia di Nichols è di quelle che ti fa pensare che il ragazzo avrà un futuro di quelli brillanti davvero (messa da parte la regia glaciale ed elegante, pensate anche solo all'utilizzo del suono nel risveglio dal primo incubo, da antologia). Infine (last but not least) c'è lui:


La faccia di Michael Shannon renderebbe disturbante anche un episodio de "La casa nella prateria", la sua interpretazione di Curtis LaForche renderebbe buono anche un film mediocre (e questo è un GRANDE film).  Shannon è uno dei più grandi attori della nuova generazione, dovreste visionare "Take shelter" anche solo per applaudire la sua prova.
Un film immenso, il cui twist finale per una volta (e al contrario che nei film di Shyamalan) è portatore di una chiava interpretativa struggente e catartica.
Perché se è vero che il mondo è un brutto posto, è altrettanto vero che talvolta il suo caos può avvicinare la vita all'arte o, più semplicemente, trasfigurare l'amore in un orizzonte buio e tempestoso.

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Ndg [nota di Gratta]: Finalmente una pellicola che, sul suo stesso campo, lo ficca dritto nel culo a quel guazzabuglio sopravvalutato che è Donnie Darko.

mercoledì 15 febbraio 2012

[recensione] Paradiso amaro


Però... che classe che ha Payne...
Trattare il tema della morte con tanta delicatezza...
Evitando facili trappole morali...
...
Oh, ecco George Clooney...
Si, recita proprio alla grande...e pensare che ai tempi di ER molti lo reputavano un coglione... e invece: bravo sia nel drammatico che nel comico, onesto, moderno, democratico!
I ragazzini sono forti... Tra il realismo e il post-moderno...
Non fa tanto ridere... però... è arguto... si, un sottotono brillante...
Perché è ambientato alle Hawaii?.. non si sa... tuttavia è divertente, no? Strano, originale... Tutte queste canzoni con l'ukulele...
Non si capisce neanche bene il messaggio... Boh... Però è delicato, si, di sicuro è un messaggio delicato...  
Ma quel tizio che fa l'amante della moglie io l'ho già visto!
Ma è quello che faceva il pazzoide in Scream!
Caspita, anche lui è diventato bravo! 
Sembra che Goerge gli stia per chiavare la moglie...
Falso allarme... Non la chiava...
Peccato, gli sarebbe stata bene a quel faccia di gomma... però la trovo una scelta di plot sobria, intelligente... D'altronde Payne è intelligente, garbato... Chi potrebbe dire il contrario?
Quanto è sveglia la ragazzina! Sa il fatto suo!
Il ragazzotto è scemo, però fa simpatia... il suo qualunquismo è garbato, inoffensivo... Ah, ma anche lui ha avuto una tragedia! Lo sapevo che era buono in fondo!
Ora spargono le ceneri dalla barca... Poesia... mi commuovo un po'... poi 'sta musica... ehhh (sospirone)...

Ma... mi chiedevo... è vero che ne I MERCENARI 2 Schwarzenegger è co-protagonista?

* 1/2

martedì 14 febbraio 2012

[speculazioni] Le proporzioni di San Valentino (Io e Diderot)

Mentre mi chiedo cosa diavolo ci faccia lo spettro scarnificato di Diderot nel mio salotto in questo gelido pomeriggio di febbraio, ecco che il mio quantomeno bislacco interlocutore prende parola, domandandomi che fine abbiano fatto nei nostri caotici tempi "terzomillenari" la sua vetusta teoria dei rapporti della percezione dell'oggetto artistico. Provo a svicolare la domanda offrendo a Diderot una tartina burro e acciughe, ma lui risponde: "Se ai barbari non piacerà la complessità delle nostre melodie e noi non gradiremo l'eccessiva semplicità delle melodie dei barbari, quanti biglietti finiranno per essere rimborsati?". Capisco allora che il saggio e defunto francese non smetterà di far puzzare la sua carcassa nel mio salotto finché non avrò trovato una risposta convincente per la sua questione. Il problema è che questa risposta io non ce l'ho. "Il novecento ha fatto a pezzi l'armonia dell'arte e i suoi rapporti indissolubili, la proporzioni tra il tutto e le sue parti e come se non bastasse oggi come oggi non si può più fumare nei locali pubblici..." continua Diderot disperato. "Ce l'hai una termocoperta? ho freddo..." conclude. Mentre sono in procinto di domandare al filosofo se è disposto ad aiutarmi a spalare la neve da davanti al garage, ecco che mi viene in mente che oggi è San Valentino. Che per me è e rimarrà sempre e unicamente quello della strage. E allora mi viene in mente un film. Chissà se lo danno in TV... l'antefatto di quella pellicola prende proprio spunto dalla celeberrima strage commissionata da Al Capone ai tempi del proibizionismo... Forse La7... Accendo la TV e comincio a vagare pigramente tra i canali, capendo ben presto che la mia ricerca sarà vana. "Sai che cos'è un film?" domando distrattamente a Diderot. "Oh, certo!" risponde. "E' quella cosa in cui lui a un certo punto dice a lei: ti farei un vestitino di saliva... giusto?" Mentre mi rassegno all'idea che l'unica pellicola visionata dall'illustre francese nel corso della sua "morte" sia "Coraggio... fatti ammazzare..." di Clint Eastwood, ecco che mi ritrovo davanti al computer a tentare di trovare il film di "San Valentino" in streaming. Anche qui niente da fare, che da quando hanno dato quindici anni a quello di Megavideo non c'è più un cazzo da ridere.


Maledizione, quel film sì che darebbe un'idea di "rapporti tra le parti" a questo maledetto rompicoglioni. Ha una sceneggiatura fuori dalla grazia del signore, fin troppo perfetta, tanto limata da essere quasi odiosa: è armonia allo stato puro, è riconciliazione con la finzione, un metronomo a ventiquattro fotogrammi al secondo! Se trovassi il dannato film potrei lasciare Diderot a guardarlo nel mio salotto e, che ne so, andare a bermi un veloce aperitivo in paese. Avevo il VHS, ma credo di averlo buttato... si, l'ho buttato sicuramente.
Niente da fare.
Non ho idee alternative.
Diderot è sul divano, che per colpa delle sue membra macilente adesso è completamente imbrattato di sangue. "Maledetto cadavere!" esclamo ormai spazientito!
"Non te la prendere..." mi risponde lui. "D'altronde... Nessuno è perfetto!"
Rimango basito.

Che mi stia prendendo per il culo, questo maledetto francese?

lunedì 13 febbraio 2012

[recensione] Hugo Cabret


Una gita al museo (del cinema)



Vidi il trailer di Hugo Cabret qualche mese fa. Mi chiesi: ma Scorsese si è bevuto il cervello? Considerando che il buon Martin non indovina un film da più di due lustri (Al di là della vita è del 1999...), mettere in scena una riduzione di un libro per bambini non mi sembrava proprio un'idea geniale. Dopo i primi dieci minuti di film, il timore è diventato certezza: Scorsese è finito. I minuti iniziali di Hugo Cabret sono francamente inguardabili. Fortunatamente la cosa finisce lì (per cui, se andate a vedere il film, resistete alla tentazione di uscire dalla sala), perché dopo l'antefatto il film cambia completamente tono e registro stilistico, diventando decente. Questa mi sembra una premessa doverosa.


Ora, veniamo al film in toto. Scorsese si deve essere divertito come un bambino a realizzarlo: la pellicola è, dall'inizio alla fine, un'immensa citazione cinematografica, con rimandi ai capolavori degli anni '10/'20/'30 ogni tre/quattro minuti (si va da Chaplin a Renoir, passando per Melies, i Lumiere e Harold Lloyd). E' come se Scorsese avesse aperto lo scrigno dei suoi ricordi cinefili e li avesse messi insieme, usando la storia del giovane Cabret come mero pretesto narrativo. Se si sta al gioco, il tutto può funzionare: ci si disinteressa dell'inutile trama e ci si lascia trasportare dalle meraviglie visive e dal gioco di rimandi teorici, come ad esempio l'idea (geniale) di “far uscire” dallo schermo – tramite il 3D – il treno dei fratelli Lumiere. Treno che effettivamente terrorizzò i primi spettatori cinematografici ottocenteschi. Il divertimento c'è, dunque, ma è alquanto superficiale. Superficiale nel senso che manca di quello spessore teorico che ti aspetteresti da un film di Scorsese: è come fare una gita al museo del cinema, senza che questa ti lasci però qualcosa di nuovo dentro da poter rielaborare; qualcosa da poter fare tua. In sostanza, guardare ma non toccare. E quindi mi sembra obbligatorio porsi una domanda: cosa può pensare di un film come Hugo Cabret una persona che vuole solo sapere se Hugo troverà la chiave per azionare il suo automa o se Melies verrà ricordato nei secoli dei secoli (insomma, una persona a cui non frega un cazzo delle citazioni)? Può solo pensare male. Comunque, agli Oscar (11 nominations) l'ardua sentenza.

Aggiunta: non l'avrei mai detto, ma Sacha Baron Cohen (Borat, Bruno) è davvero bravo.



Voto: ** ½

Davide Mazzoni  

[l'invisibile del mese] The limits of control


"Two espressos in two separate cups..."

Le rubriche fioccano!
Forse una simbiosi con le intemperie di questi giorni? Boh, chissenefrega.
Con questo appuntamento cercheremo di proporvi i migliori film che sono stati trascurati dalle distribuzioni italiane ma che meritano assai più riguardo di certe schifezze che invece le sale le infestano.


Dunque, "The limits of control". A girarlo non è stato un astro nascente, ma il cazzutissimo maestro che è Jim Jarmusch (che adesso pare stia girando un film di vampiri con Michael Fassbender... Mi fido alla grande!). La critica americana lo ha più o meno falcidiato, ma vi basterà un breve tour su rottentomatoes (database che raccoglie la media di gradimento di tutte le recensioni a stelle e strisce) per rendervi conto di quanto poco gli yankee ci azzecchino. E non ci hanno azzeccato nemmeno questa volta, perché la pellicola in oggetto è un filmone.



Ai più lungimiranti di voi sarà bastata la locandina (vi sento, siete già in strada che correte al più vicino "Feltrinelli International", vi vedo passare all'interno del cerchio rosso, di fianco a Isaac de Bankolé).
Ma quanto è maledettamente bella? Spoglia, pop, beat e blaxploitation allo stesso tempo, calda eppure marziale. Mi è capitato raramente di parlare del poster di un film. Forse mai. Ma qui mi sono arreso, se non altro perché avendo visionato la pellicola so per certo che quella custodia non contiene uno strumento.
"The limits of control" è un film geometrico, fatto di ripetizioni e atti rituali, ma la sua geometria non costruisce un poligono, ma le linee di costruzione di esso, mostrandoci ciò che in un film di genere solitamente viene tagliato e nascondendoci quasi del tutto il plot. Un film sul fuori campo, insomma, costellato da stralunati incontri tutti uguali tra il protagonista e dei misteriosi personaggi (su tutti quello dell'ossigenata Tilda Swinton, magnifica portatrice del significato dell'intera pellicola), che parla in modo più esplicito di quanto non si direbbe a prima vista (eh eh) dei limiti dello sguardo umano e, in seconda battuta, di quelli del cinema. Il controllo della regia di Jarmusch è lo stesso, marziale, del misterioso protagonista, il loro incedere lineare e immemore, il loro essere spogli di tutto ciò che non sia basico (necessario), porta ben presto il noir su binari metafisici e astratti, che per antitesi ci insegnano che non c'è situazione più importante di quella presente e non c'è atto più fondamentale di quello che si sta compiendo.
Sempre.

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